“Ciao Fante, ti faccio una media?” Il saluto arriva piano tra i rumori del bar ed io ho appena varcato la soglia, tengo ancora una mano sulla porta aperta. Annuisco con la testa ed un sorriso che lancio da lontano, mentre mi avvicino al vecchio bancone di legno e marmo grigio.

Fante è il diminutivo di fantino, questo soprannome me lo porto appresso da anni, forse dall’epoca in cui tolsi i pannolini per salire su di un pony. Talmente tanto tempo che non ricordo né quando né chi me lo affibbiò.

Al di fuori dalle scuderie non si ha idea della differenza tra fantino e un cavaliere ed io non sono il primo, ma ci metterei troppo tempo a spiegarlo, e poi un soprannome è un soprannome non una definizione del vocabolario.

“Finito tardi stasera.”

“Ho fatto una lezione individuale ad una novizia” Gli ospiti del locale, guardano i miei stivali di pelle nera infangati. Alcuni sorridono quando lo sguardo si posa sui pantaloni neri, attillati come la calzamaglia di un ballerino, solo che al  posto delle pallets ci sono degli inserti in gel, all’interno della coscia e sui polpacci, a me servono per avere maggiore aderenza alla sella e a loro per avere un argomento su cui ridere questa sera. I lori sorrisi sdentati ed un po’ idioti mi lasciano indifferente. Quelli meno biechi si soffermano sulla t-shirt che odora di sudore, cavallo, rogna e donna. Ma le ultime due definizioni sono sinonimi.

“Le conosciamo le tue lezioni alle novizie”, il plurale è superfluo, le conosce o quantomeno le intuisce solo lui.

“Ecco perché non porti tua moglie nel mio maneggio”. Sorrido dopo il primo sorso di bionda fresca e schiumeggiante. Con il dorso della mano sinistra elimino i baffi bianchi “ quando mi porterai tua moglie le farò una lezione gratis, come gratis è questa birra” ghigno.

“Brutto figlio di …”

“Eh, eh, eh, la mamma non si tocca, come le mogli degli amici.”

“Sei sempre il solito.”

“Anche tu Riccio, anche tu sei sempre il solito”. Il suo soprannome vale doppio: chioma inanellata e smania di sesso.

É il proprietario del bar nonché mio coscritto, solo che lui i trenta li ha già compiuti ed io no. Abbiamo frequentato asilo, elementari, medie e parte delle superiori assieme. Il boccale piange lacrime di condensa, termino la birra e pago il conto, saluto il Riccio con una stretta di mano all’americana e ripercorro il tragitto dell’uscita, un occhio si posa sugli speroni a goccia.

“Fanno male questi.”

“Cosa vorresti dire?” Un bestione puzzolente si alza minaccioso, peraltro senza riuscire ad intimorirmi, facendo un gran fracasso con la sedia. Di energumeni sbraitanti ne ho dovuti affrontare a centinaia nella mia vita, ed ho constatato che la maggior parte di essi non è degna della fama da bullo che si trascina appresso.

“Li osservavi incuriosito” indico le gocce di acciaio che sormontano le calzature “ti volevo spiegare che questi causano un fastidio maggiore rispetto ai talloni nudi, quando li premo sui fianchi del cavallo.” Sostengo il suo sguardo sino a che non vengo distratto da una donna che entra al bar e per fortuna neppure il troll di campagna ha interesse a proseguire la discussione.

Bionda, capelli corti e pasticciati, probabilmente se raggiungessero una lunghezza più femminile potrebbero fiorire in sinuosi boccoli. Non molto alta e neppure troppo piccola, circa un metro e sessantacinque di nervi e muscoli, il ventre piatto il seno come il sedere sono piccoli ma giusti su di lei. Gli occhi brillano di azzurro senza essere illuminati da cromature di matite o ombretti, non porta trucco neppure sulle esili labbra. Anche l’abbigliamento sembra l’abbia sottratto ad un ragazzo di cortile: un paio di jeans sgualciti di proposito, un paio di scarpe da tennis alte sino alla caviglia ed una canotta. Di femminile sono i bracciali e le collane se non fosse per l’eccesso di metallo sullo stile di Mr. T. Mi passa accanto arriccio il naso ma non sento né profumi né odori.

Mi sconvolge l’idea di essere stato attirato da un donna così lontana dai miei stereotipi e maggiormente mi inquieta l’idea di averla già conosciuta.

Prima di abbandonare il locale cerco il suo riflesso nel vetro della porta, vorrei vedere cosa ordina ma non ho voglio essere sorpreso da nessuno ad osservarla. La luce mi nega questo piacere.

Scruto il cielo illividito da nubi agostane, di tanto in tanto compare un lampo a rischiarare la penombra del temporale in arrivo.

Casa mia, o meglio il luogo dove vivo, due stanze e un bagno al piano terra di una corte ristrutturata. La proprietà è di mio padre, potrei permettermi spazi residenziali maggiori ma non mi servono. Una porta immensa di apre sul giardino riservato, solo perché sta nel retro del podere e nessuno ci passa se non per entrare da me e per farlo può scavalcare la siepe o suonare il campanello. Curo maniacalmente l’erba, i fiori e le piante  perché adoro sedermi nel mio giardino a leggere un libro sorseggiando una birra tra il vento del prossimo temporale.

Lascio nel portico di ingresso stivali e speroni, gli altri indumenti restano a terra all’ingresso, mi serve una doccia prima di cena anche se non ho molto appetito ma neppure questa è una novità, io sono il Fante anche per l’aspetto fisico, non sono basso ma sono molto magro, avrebbero potuto chiamarmi “Gentleman”.

Privo di abiti, stappo la mia birra da 33cl, rossa questo giro e trangugio due sorsi prima di mettermi sotto la doccia tiepida. Il resto della bottiglia lo finirò in giardino leggendo e pensando all’allenamento che preparerò per domani.

Il rumore della pioggia si confonde con l’acqua che scivola sul mio corpo, regalandomi la sorpresa del temporale solo dopo aver indossato l’accappatoio.

Spalanco i vetri della porta, resto in silenzio ad ascoltare il rumore delle gocce che si schiantano a, il boato dei tuoni e l’odore di zolfo e ozono dei fulmini. Il vento muove le tende verso l’interno della stanza lasciando arrivare carezze di fresco sulla pelle ancora umida. Resto seduto sul letto rivestito da lenzuola di lino color écru, sul comodino la bevanda rossa e tra le mani un libro del solito Michel Robert e le sue tecniche di addestramento dei cavalli. Quando la tv è impostata su un canale musicale sento giungere dei passi leggeri, inattesi. Non li distinguo e non sono né quelli di mia madre né quelli di mio padre ed a quest’ora non possono essere neppure del groom e neppure di qualche bracciante. Chiunque mi avesse cercato di estraneo alla tenuta avrebbe suonato il campanello.

Il tendaggio prende la forma di un corpo esile, seppur poco evidente è di donna. La sagoma mi riporta alla donna del bar, compie due passi sta per mostrarsi… mi sveglio. Era un sogno.

Ho dormito pochi minuti, quel tanto che basta a rendermi la notte insonne ed aver superato la soglia dell’appetito, rileggo sino a riaddormentarmi.

Sono pronto a montare i miei cavalli prima delle lezioni ai privati, li muovo in piano perché mi sento rincoglionito dal poco sono.

Dalla sabbia si alzano i fumi dell’acqua evaporata sotto il sole agosto.

Prima di pranzare con i miei genitori, vado dal Riccio, ho sete, voglia di birra e non bevo mai la mattina.

Pochi randagi sono al bar, molti in vacanza, quelli che possono gli altri sono a casa con i famigliari o i più sfigati lavorano in qualche cantiere.

“Ciao Stefano”, lo chiamo con il suo vero nome, “ mi fai una bionda con tanta schiuma”.

“Sei sicuro? Stai bene?”

“Si, certo, che domande mi fai?”

“In trent’anni  non ti ho mai visto bere una birra prima delle 18,00 ed hai due occhiaie che neppure la tua abbronzatura riesce a nascondere.”

“Ho dormito male, ho caldo, voglio le ferie.”

“Ma ne farai?”

“Più avanti quando i concorsi di salto ostacoli non avranno cadenza settimanale o sarò costretto a farli al coperto, al freddo. Non so ancora dove andrò, lontano, su spiagge bianche a bere noci di cocco”

Gli serve la birra accompagnandola da un insolito” offro io”

“Devo avere proprio una brutta cera se ti commuovo a tal punto” gli rispondo.

“Fante, mi sa che se non ti fai un ovetto sbattuto con dello zucchero non arrivi a sera con le tue lezioni alle novizie.”

Tracanno il malto ghiacciato, sbatte il boccale sul marmo “ A buon rendere, Riccio. Come ti avevo promesso ieri, devo una lezione gratis a tua moglie.”

“Potrei portarla oggi, hai stranamente l’aspetto innocuo.” Vorrei chiedergli chi fosse la ragazza della sera precedente, ma capirebbe il motivo della mia inconsueta visita e non voglio esternare i miei pensieri. Prima di cena passerò per un altro rifornimento.

Il resto del giorno passa come tutti gli altri e come tutti gli altri giorni torno al bar. Temporeggio, tentenno, indugio e mi trattengo molto più del solito, senza mai trovare il coraggio di domandare e cosa peggiore: senza che lei torni a mostrarsi.

Il tragitto tra la cucina di mia madre e la mia camera costeggia i box dei cavalli, come ogni sera lo percorro lentamente, dopo aver cenato, una scusa per ricontrollare che tutto sia in ordine prima del grande buio. Improvvisamente Ombra scalcia per due volte contro la porta, quel vecchio ronzino, non sta più neppure in piedi per la vecchiaia e stasera ha deciso di seppellire me prima di lui, è nato lui prima di me.

La stanchezza sta imperversando e non mi sforzo a combattere il sonno, vorrei rivedere la donna del mio sogno. Chiudo gli occhi abbracciando il cuscino e ricoperto dal fresco della notte mi abbandono ai pensieri, quelli che sopraggiungono prima del sonno prima di dormire, prima che decidano se diventare sogni o incubi.

La tenda si muove, nonostante i vetri chiusi, non so e non voglio sapere se sto sognando, se sto vivendo o se sono già morto. Non esita, scosta i tessuti e si siede sul letto senza parlare, si spoglia e si siede su di me, iniziando a leccarmi il collo. Mi abbandono rispettando la volontà del silenzio, si strofina su di me, morde il collo. Non è il mio, io vedo la scena dall’alto, sotto di lei un uomo stempiato, più vecchio di noi, appesantito, lo riconosco… cosa fai lui nei miei sogni?

Quella immagine mi solleva dal letto, senza rendermene conto è l’alba e non dormirò oltre, sono turbato da ciò che ho visto, immaginato e infastidito dal rumore dei calci di Ombra.

Torno alle stalle e trovo tutto chiuso, nessuno segno di disordine o intrusione. Il suo muso scuro si confonde nella penombra, siamo insieme da una vita, la mia. Con lui ho vinto i miei primi concorsi e con lui ho imparato a stare al mondo, quante volte mi ha fatto capire che ero troppo sicuro di me o troppo ubriaco.

Non c’è ancora nessuno in scuderia, se non gli addetti alle stalle che devono mettere al paddock gli animali, dargli cibo e acqua, pulire i box. Decido di sellare il vecchietto e di fare una passeggiata con lui, prima che salga il caldo. Non mi preoccupo di mettere, speroni, ghette e casco, sono sicuro con lui e non ho nessuna intenzione di sforzarlo in andature sostenute. Questa mattina gli lascerò decidere dove andare, conosce ogni sentiero, strada, riva e argine. Prende la strada che costeggia il fosso e arriva al cimitero, dal retro. L’abbiamo percorsa centinaia di altre volte. Gira attorno le mura decadenti del camposanto. Di fronte al cancello si inchioda, nitrisce e sgroppa se non lo conoscessi penserei che mi voglia scaricare. Lo penso anche se lo conosco, talmente è alto il suo impegno ad alternare sgroppate e candele. Resto in sella con il peso sulle staffe, attendo che si calmi ma il momento non arriverà mai. Rimpiango gli speroni, dovrò mettere più forza nelle gambe e nelle mani. Lo costringo in cerchi sempre più stretti, sino a che sfinito o stufo non si rassegna alla sottomissione temporanea.

Lascio Ombra nel box a dissetarsi e saziarsi, il vecchio quando vuole dimostra ancora tutta la sua potenza.

Mi serve un caffè ed anche dello zucchero per ripartire. Decido di andare dal Riccio a prendere un caffè ed un cornetto alla marmellata, sono eccezionali le sue brioche, quasi quanto la birra.

Mi concedo una passeggiata, sono solo un paio di centinaio di metri. La porta del bar si apre verso l’esterno e la donna bionda esce, è vestita esattamente come l’altra volta, uno stile cittadino di altri tempi che la riporta ad essere una  contadina dei tempi di oggi. Mi strofino le mani sui pantaloni grigi per asciugarmi il sudore che freddo inumidisce la mia pelle. Gronda la fronte ed un rivolo percorre la spina dorsale in discesa.

Non la incrocio se non con lo sguardo, mi vede ne sono certo, mi scruta come volesse dirmi qualcosa ma gira nella direzione opposta come fosse chiamata da qualcuno o qualcosa di irresistibile.

Non fingo più, deciso chiedo a Riccio chi sia quella donna.

“Non è entrata nessuna bionda.” Secco mi risponde, strabuzzando gli occhi, come se avessi chiedo se ha visto passare Gesù Cristo.

“Quella che era qui anche l’altra sera, ricordo che le hai servito una Guinness.”

“Fante… non ho avuto Guinness nel mio bar”

“Fai finta di nulla.” Scaccio i fantasmi con la mano. Rinuncio, non capisco cosa stia succedendo io, come potrei spiegarlo a lui.

Una altra giornata svogliata trascorre sotto il sole, tra la sabbia, il trattore ed i cavalli.

Al calare della luci dopo aver consumato la cena, mi regalo l’inizio di un nuovo libro e la fine della mia prima birra preferita. Sento il suono della natura che mi culla, le cicale, gli uccelli, ogni tanto un cavallo, due calci di Ombra.

I nitriti si fanno più frequenti, riducono l’intervallo con il passare delle ore, come le contrazioni di una giovenca, più si avvicina il momento del parto più i secondi di silenzio diventano evanescenti.

Riprendo i pantaloni che avevo appena tolto, infilo un paio di tronchetti ed una polo chiara, quelle che uso durante le sessioni di jogging, con le strisce catarifrangenti. Non lo sello, gli infilo la prima testiera che trovo e monto a pelo, ho la sensazione di sapere dove mi porterà.

Il postino suona il campanello, regge tra la dita una raccomandata bagnata dalla neve, la riconosco seppur distante, dalla cartella gialla della ricevuta da firmare.

Ringrazio senza offrirgli un caffè caldo, rientro in casa a sventrare la busta, fremo, tremo, temo.

Leggo e corro da mio padre, con le lacrime agli occhi.

“Papaaaaaaaà, papà, pa…pa-pà” Strillo ripetutamente come un indemoniato

Mi si para dinnanzi, illuminato dall’arancio e rosso del camino ancora in vestaglia, l’aura da brava persona, questa volta non mi ammalia.

Spaventata arriva anche la mamma mentre, con la busta schiaffeggio furente il mio incredulo genitore.

“Adesso voglio la verità!” Impetuoso, imperativo

“Di cosa parli?” Ovviamente, ancora non sa a quale quesito io pretenda risposta.

“Voglio sapere cosa è successo alla mia vera madre e chi siete voi due.”

Il cielo crolla portando con se tutte le pesanti nubi cariche di neve, freddo e tristezza.

“Cosa stai dicendo?” tenta di non comprendere. Non ci casco, ho tutto scritto.

“Questa estate avevo fatto un sogno, una donna bionda era venuta a trovarmi e sul letto faceva l’amore con un tale che non conosco, anche se ho come la sensazione di averlo già visto.”

“Ma cosa stai dic…”

“ Zitto!” strillo spingendolo sulla spalla “ Lasciami parlare, adesso.” Riprendo singhiozzando  “Ombra era nervoso in agosto, lo ricordi? Continuavo a ripeterti che scalciava contro il box, come non mai. Lo montavo e mi portava sempre al cimitero. Non capivo il perché, non lo sapevo.

Ho ispezionato tutte le lapidi, una ad una, illuminando con la torcia ogni fotografia, ogni epigrafe. Sino a trovare lei. La donna che avevo visto in sogno, defunta pochi mesi dopo la mia nascita, a diciotto anni”

“Ma…” interrompe, mentre la mamma non riesce neppure a muovere i muscoli delle mandibole.

“Zitto!” L’urlo è freddo e pericoloso come una lama di ghiaccio “In questa busta ci sono i risultati del test del DNA di paternità e maternità”. Cala un inesorabile, triste silenzio “ Di voi non ho alcun gene. Di Marta, il cinquanta per cento.” Strofino gli occhi.

“Non risultano pratiche di adozione e questa donna non è mai stata ricoverata per parto in nessun ospedale della regione.” Li sfido con lo sguardo e i documenti che possiedo “Adesso puoi parlare.”

“É vero, non siamo i tuoi genitori biologici ma non puoi negare che ti abbiamo sempre trattato come se tu lo fossi.”

“Non mi avete mai detto la verità. Mi pare un motivo più che valido.”

“Non potevo” Papà guarda mia mamma, forse neppure lei sa tutta la vicenda.

“Enrico, il mio amico e veterinario un giorno venne a casa nostra, in un orario insolito per parlare di lavoro. Neppure quando aveva cavalli eccezionali da propormi, arrivava a quell’ora ed in quelle condizioni di apnea”. Si siede stanco sulla sedia senza rivolgere lo sguardo a nessuno “Mi disse di avere avuto una relazione clandestina con una ragazza, che avrebbe compiuto diciotto anni dopo qualche mese e di certo prima del parto. Capii il senso delle sue parole solo quando mi chiese di non dire nulla a Beatrice, sua moglie. Mi chiese il favore di prendere Marta a lavorare da noi per sei mesi, così da nascondere la gravidanza ai genitori e ai parenti sia di lei che di lui. Con una scusa si sarebbe resa reperibile solo al telefono. Ad un amico non si nega un favore ed il tempo passò prima del previsto, nascesti prematuro a sette mesi. Il parto avvenne in casa, in quella stanza” Curvo sulle spalle indica la porta marrone alla destra, quella che accede alla mia vecchia camera da letto.” Ad assistere la partoriente, c’erano la tua attuale madre ed il… veterinario. Facemmo carte false, inciuci e corrompemmo chi fu necessario sino a che non risultasti a tutti gli effetti nostro figlio.”

“E allora, perché?”

“Adesso ascolta tu me”. Brusco, come fosse l’ultima cosa che gli resti da fare a questo mondo “ Marta non volle tornare dai genitori e decise di fermarsi qui da noi. Eravamo in debito con lei, ci aveva dato quello che la natura non voleva regalarci: nostro figlio. Passarono le prime settimane e Marta iniziò a pretendere un aumento, poi un’auto, una casa. Le richieste diventavano sempre maggiori e teneva sotto scacco la nostra famiglia e quella del veterinario. Ci ricattava, minacciava di raccontare la verità alla polizia. Sino a che un giorno, sotto il sole in piena campagna, Enrico esausto, la colpì a morte con un ramo sulla fronte. Corse da me… a chiedermi nuovamente protezione. Un aiuto che non potevo permettermi di rifiutare. Simulammo un incidente a cavallo. La mettemmo in sella ad Ombra, il suo cavallo preferito, cercammo un ramo attaccato ad una pianta, che fosse alla sua altezza giusta, lo sporcammo del suo sangue e tutti credettero che fu li a sbattere la testa durante una galoppata eccessiva.”

“Complimenti. Ora potrei essere io ad andare alla polizia o a chiederti soldi.”

“Cosa cambierebbe hai già tutto quello che puoi chiedere ed un giorno tutto questo sarà solo tuo Non hai avuto l’amore ed il denaro che ti meriti? Sei sempre stato più di un figlio per noi, l’unica ragione di vita.” Del resto non ha mai capito la differenza tra amore e regali, non può farlo ora.

“Ed Enrico?”

“Non riuscì a reggere il peso che portava sulla coscienza… “

Volto le spalle senza salutare. Al primo passo sbatto la busta contro il palmo della mano destra, ad un secondo passo ripeto il leggero rumore di carta, al terzo passo sento agonia ed un tonfo. Il cadavere di mio padre a terra, penso finga. Solo dopo capirò che non gli ho dato l’ultimo saluto, non credendogli neppure in quell’ultimo respiro. Non verso lacrime neppure ora. Voglio ringraziare Ombra per avermi regalato l’assoluta verità sulla mia esistenza. Ha lo stesso sguardo e la stessa postura di quello che pensavo fosse mio padre. Ancora oggi ad ogni birra brindo al baio della mia vita ed un lacrima insaporisce la schiuma sui baffi.

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